Weekend con il Morto – Nuto Revelli

Nuto Revelli_Alpini

La pagina Wikipedia di Nuto Revelli cita testualmente, «è stato uno scrittore, ufficiale e partigiano italiano». Tre titoli niente male per un uomo solo. Leggendo i libri di questo coraggioso Cuneo non è facile capire quale dei tre gli si attagli meglio. Ha dimostrato di essere un meraviglioso scrittore con le pagine sul Davai; è stato un ufficiale che tutti hanno descritto senza macchia e la cui attenzione ai dettagli delle persone si sono visti nel Disperso di Marburg; del partigiano siamo in grado di vedere i postumi pubblici che ne denotano lo zelo e la gentile ossessione verso la Libertà grazie a testi come La Badoglieide. Nuto Revelli una volta finita la guerra ha iniziato a camminare.

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La guerra, nel calcio.

Il calcio non è guerra.

Dire che i luoghi comuni uccidono è un luogo comune. Ed è per questo che chi lo afferma viene spesso emarginato e sommerso da una spessa quanto insuperabile soglia di discredito che si abbatte senza possibilità di scampo. Tuttavia provarci, a dissimulare lo stereotipo, a riconoscerlo, a dare i nomi alle cose, è un tentativo che, senza esagerare, può essere definito epico, alto. Nel calcio di luoghi comuni ce ne sono moltissimi.              I bambini di sette anni – una volta li chiamavano indiscriminatamente pulcini – si fanno il segno della croce entrando in campo, magari due o tre volte consecutive; e poi sputano per terra, sputano a ogni piè sospinto.

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L’Europa e Il Decennio Scheggia

Se il ‘900 è definito da Hobsbawm ‘Il secolo breve’ per la concentrazione degli eventi in un breve segmento di tempo, i primi dodici anni del 2000 potrebbero essere definiti il decennio scheggia. Nel 1999 c’era il ‘Millenium Bug’, che terrorizzava tutti perché si pensava che l’ipotetico difetto insito nei meccanismi quantici dei computer – che secondo alcuni non sarebbero riusciti a contare da 1999 a 2000 – avrebbe fermato il progresso portando l’umanità indietro, d’un baleno, di qualche centinaio di anni. Tutti dicevano: “Ecco, il mondo finisce”. Era scenario apocalittico ma affascinate.

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Il bellicismo all’americana colpisce ancora.

Agosto 1942, Oceano Pacifico. Le storie di tre soldati americani si intersecano nel racconto della sanguinosa guerra contro l’Impero Giapponese. La nuova produzione Spielberg-Hanks di DreamWorks non delude la tradizione che li ha già visti insieme in passato in Saving Private Ryan e Band of Brothers: i risultati sono indubbiamente spettacolari – e ci sarebbe da chiedersi come potrebbero non esserlo, visti gli investimenti da circa 150 milioni di dollari -, ma la vicenda sviluppa il solito cliché del bellicismo in prima persona, del cameratismo, delle gesta eroiche e della fasulla magnanimità del vincitore che ha oramai esaurito gli spunti di riflessione.

Le cinque puntate della mini-serie sono liberamente ispirate alle memorie di due marines: With the Old Breed di Eugene Sledge e Helmet for My Pillow di Robert Leckie. Anche se non vi è una esplicita affermazione del ‘giusto’ e dello ‘sbagliato’, la vicenda raccontata contribuisce ad alimentare il concetto secondo il quale le gesta eroiche di pochi hanno salvato il destino di molti: la guerra era inevitabile, il nemico ha portato un popolo pacifico e civile a combattere con risolutezza la barbarie della tirannia. Insomma, la storia la scrivono i vincitori e si vede.

Un discorso a parte merita la bella trovata per la sigla, che alterna disegni a carboncino e spezzoni del film che risultano molto ben fatti; il tratto nero prende vita e diventa il viso di un personaggio, la vista dell’orizzonte, una mano che scrive una lettera. La colonna sonora è opera del solito ‘santone del soundrtack’ Hans Zimmer, un trionfo orchestrale ad ampio respiro che accompagna lo sguardo dell’eroe stremato mentre voltandosi a guardare il cammino percorso si chiede cosa possa significare tutto questo.